Sante Silvestrini

 

 

Sante Silvestrini, nato ad Oderzo (TV) il 22 luglio 1959, si è diplomato geometra a Oderzo nel 1979 e successivamente frequenta il 100° corso AUC alla SMALP di Aosta (1980-1981). Terminato il servizio militare inizia il lavoro presso un'impresa edile. La notte del 2 marzo 1984 esce di strada con la sua Golf e muore il giorno dopo all'ospedale di Oderzo.

I suoi funerali, lunedì 5 marzo, sono una festosa cerimonia funebre tra una marea di gente commossa e ammirata, accorsa per l'ultimo saluto e la partecipazione di circa quaranta sacerdoti concelebranti con il parroco. Il diario personale di Sante, testimonianza anche di una profonda ricerca spirituale, viene pubblicato nel dicembre del 1988, con il titolo "Sante era già arrivato. Il diario di Sante Silvestrini" a cura di Pietro Scalia e con una prefazione del vescovo di Vittorio Veneto mons. Eugenio Ravignani.

 

Alberto Silvestrini

 

SIAMO PARTITI AL MATTINO ALLE ORE 8 CIRCA DEL GIORNO 27 AGOSTO

 

Carichi fin sopra la testa con uno zaino che pesava mediamente quindici-venti chili più naturalmente il fucile. Circa ore una e mezza per salire al poligono di Clen-Neuf. Pioveva a tratti più o meno intensamente. Sparato e mangiato sotto la pioggia con un freddo penetrante e l’umidità ormai nelle ossa per gli indumenti.

Verso le 17 circa siamo ripartiti per q. 1600 da q. 1000. Tre ore e mezzo di marcia in mezzo alla nebbia e alla pioggia per sentieri invisibili a passo sostenuto. Avevo forti dolori lombari (alla schiena) ma niente poteva fermarci o indurre qualcuno a fermarsi. Per fortuna, pensavo, ho potuto aggiustare lo zaino laggiù al poligono con del ferro e una pinza. Infatti la cinghia appoggiaschiena si era spezzata per il peso e il telaio in ferro mi segava la schiena. Ora comunque anche con la cinghia a posto lo zaino “tirava” come il più temuto nemico delle mie spalle.

Per fortuna una sosta: “Squadra a posto - squadra attenti! - armi e materiali a terra - squadra ri-poso!”. Le più belle parole dopo quasi due ore di salita irta, nel fango e sotto la pioggia. Eravamo a q. 1400. Pochi minuti, perché faceva freddo, nei quali il Capitano cercava lumache invece di riposarsi! e via di nuovo. Ormai si tendeva al buio. Gli ultimi chilometri non erano molto in pendenza, però erano infiniti. Pelaia, compagno di camerata, era bianco, e lasciato lo zaino si era appeso al cinturone di Ercoli che lo tirava a turno con qualche altro. Arrivammo su verso le 20.30 sul posto dove si dovevano fare per la prima volta le tende. Sembra impossibile con un pezzo di stoffa e due picchetti a testa riuscire a fare le tende per la notte. Eppure in un quarto d’ora dovevano essere tutte montate, allineate e coperte. Ormai era quasi buio e la pioggia non smetteva. Sull’erba bagnata dovevamo metterci il materassino con sopra il sacco a pelo, ma per fortuna il terreno un po’ in pendenza faceva scorrere l’acqua ai nostri fianchi.

Poco dopo, gavetta e gavettino, tirata fuori la giacca a vento asciutta, in fila (quasi un’ora) per il rancio. Sentivi la pioggia battere anche sull’ultima speranza asciutta che ti restava, ma la fame non ti faceva desistere, specie in prospettiva di quello che dovevi affrontare poche ore dopo. Ormai erano le 22.30 e dopo aver appoggiato il fucile per terra vicino all’erba, con Culot ed Ercoli munito di pila, con il cibo nel gavettone e il pane bagnato in tasca, lì in piedi, in mezzo al fango, con la pioggia che mi raffreddava ulteriormente la bistecca impanata, con le mani sporche, riuscii a divorare tutto quello che avevo sotto, quasi ridendo ed esclamando che tutto era cosi assurdo e incredibile perché si potesse raccontare. Ma la sensazione era meravigliosa.

Alle 23.30 eravamo quasi tutti in tenda che con 10 o 12 mq. ospitava 9 persone. Quasi di taglio si “dormiva”. E la pioggia batteva. Dormii forse un’ora, forse qualcosa in meno o in più, poi sentii tutti i rumori e il lamenti di chi ormai aveva la febbre, fino all’1.20 quando ci dettero la sveglia. In venti minuti dovevano sparire le tende e ricomparire gli zaini.

Cominciarono venti minuti “terribili” perché tutto, inzuppato dall’acqua, era cresciuto e se la sera prima per fare lo zaino tutti si chiedevano come si poteva far stare tanta roba lì dentro, ora tutti “ravanavano” come matti per far entrare il sacco a pelo e tutto il resto. Poi al buio, con difficoltà si riconosceva la propria roba, i picchetti si perdevano facilmente; ma bene o male riuscii anche in questo ad essere pronto dopo circa 30 minuti. Naturalmente gli zaini erano aumentati in altezza e in peso dato che tutto ormai era inzuppato di acqua; noi stessi.

Alle ore 2 si riparte per q. 2400 dove si doveva assistere a degli attacchi di pattuglie dei nostri vecchi e all’elimbarco. Qui veramente trovammo eterno. Dopo tre ore di marcia vidi delle luci in lontananza perché era ancora buio. Erano lontane almeno 2 km. in linea d’aria. Pensavo: “Ci si fermerà sicuramente prima, lassù ci saranno delle malghe, se mi dicessero che bisogna andare lassù ora mi fermerei”. Qualcuno intanto rallentava, e per l’effetto “fisarmonica” il terzo plotone che è verso gli ultimi deve correre e fermarsi più volte. Questo in montagna toglie la cadenza nella respirazione e nel passo che è essenziale per la resistenza. Quelle luci si avvicinano, le raggiungiamo e le passiamo per fare un ultimo tratto di forte pendenza. Ormai siamo vicini, bisogna resistere. Penso che per fortuna Pelaia è stato spedito giù prima del campo, perché non ce l’avrebbe fatta.

Ecco le tende del comando: siamo arrivati a q. 2400. La pioggia ci aveva risparmiati in questi ultimi 2 km., ma il freddo dopo pochi secondi che eravamo fermi, ci assaliva. Subito mi accorsi che il braccio sinistro non lo sentivo più e non riuscivo a controllarlo. Era tutto informicato in seguito alla spalliera dello zaino che tagliava la spalla. Sento chiamare Fox, il nostro compagno di corso, medico e con quasi 28 anni. Gamberoni sta male. Il polso non gli si sente più. Viene spedito in autoambulanza subito in caserma. Era in stato comatoso, ma si è ripreso bene poco dopo. Intanto qualcuno sviene e viene messo in tenda per un po’ di caldo e caffè. Uno reclama d’avere la febbre e il capitano gli risponde che in quelle condizioni il 90% ha la febbre. Mancava poco che svenissi anch’io, perché appena arrivati hanno chiamato l’adunata e ci hanno fatto stare in piedi di fronte alle esercitazioni per più di un’ora.

Le sensazioni erano le più strane e mai provate. L’insieme della febbre che mi sentivo addosso, delle luci date dai razzi illuminanti per l’esercitazione, degli spari di mitragliatrice e bombe a mano, del freddo misto ad umidità, del sonno e stanchezza, con il capitano Folignani di fronte che parlava (dopo aver dormito almeno 8 ore ed essere salito in campagnola), del pensiero di casa, del braccio che non sentivo più, del ritorno che ci aspettava poco dopo, l’insieme di tutto questo mi faceva girare la testa e più volte appoggiare su chi mi stava a fianco per non cadere. Finalmente il cielo si rabbonisce un po’ e il capitano smette di parlare. Ora si farà colazione e poi si riparte.

Il freddo mi attanagliava e mi ricordai che l’unico sistema per combatterlo è fare ginnastica, con una buona respirazione profonda. E cosi mi rimisi un po’ in sesto, anche se a qualcuno poteva sembrare strano che uno, dopo tutto quello che aveva fatto, avesse ancora la forza di fare ginnastica. “Non capiscono niente, soffrono il freddo e stanno male”, pensavo. Quindi una colazione da fotografare, come feci, e dopo gli onori al comandante della SMALP partiamo perché l’elimbarco per ragioni atmosferiche verrà fatto più tardi. Partenza alle 9.30. Finalmente in discesa! pensiamo. E invece no.

Fu tragico l’impatto con una nuova salita che non rispecchia la via d’andata. Già qualcuno comincia a crollare e abbandonare lo zaino ai più forti. Non si sa chi è, perché probabilmente sono del primo: “Marcooon! Braidooot! Venite! Serve aiuto!”. Sono i più forti in marcia. Gli zaini di chi scoppia li portano spesso loro.

Si scoppia psicologicamente, dicono, ed è vero. Ciò che ti frega è pensare di non farcela, magari perché si pensa di soffrire più degli altri. A volte può essere vero, ma se l’attenuante esiste per noi, non esiste per tutti gli altri che ti ritengono, spesso ingiustamente, fisicamente inferiore. Ad esempio, chi ha fatto la guardia la notte prima di partire è già in partenza handicappato nei confronti di chi ha dormito le sue sei o sette ore. Ma di questo nessuno se ne occupa. Nelle marce impari a soffrire, questo è l’essenziale, e chi più chi meno, devono arrivare alla meta soffrendo.

Dopo quasi due ore di saliscendi siamo ancora sopra le nubi della vallata. Gli elicotteri dei nostri anziani sono passati più volte ai nostri fianchi. “E’ giusto - penso - dopo cinque giorni che vivono sotto la pioggia a quella quota!”, ma tutti li invidiano. Le gambe in discesa fanno uno sforzo diverso soprattutto di sostegno nel molleggio. Non si possono irrigidire altrimenti si scivola; e così la discesa, così caricati, non è più bella della salita; inoltre lo zaino ad ogni passo salta sulla schiena e le varie cinghie tagliano perché non sono imbottite. Quindi comincia la discesa, ma Aosta non si vede. I sentieri diventano sempre più ripidi e le ginocchia tengono sempre meno. Alla prima sosta di pochi minuti ci fanno togliere tutte le giacche e i maglioni: per me che ritenevo una difesa alle spalle l’imbottitura data da tali indumenti, quando iniziai a scendere con le cinghie quasi sulla pelle, iniziò una nuova sofferenza. E si marciava male; spesso ci si doveva fermare bruscamente per due o tre secondi o correre per altri secondi. Aosta era sempre lontanissima, ma si incominciava a vedere, mentre i sentieri erano solo letto di torrentizi asciutti, che costringevano ad abbassarsi o saltare continuamente. Molti cadevano e imprecavano chiedendo una sosta.

Il tenente Joly dietro di me era stremato ma non lo faceva vedere, anzi aveva ancora il fiato o forse solo i nervi per parlare. Ormai i plotoni e le squadre erano immischiate e senza distanze regolari. Tutti andavano più istintivamente che ragionando. Alla prima fontana in una malga, una sorta di ribellione per un po’ di acqua, ma subito spenta dal tenente che a suon di minacce riesce a farci avanzare. Finalmente una strada e una sosta. Tutti cadono a terra, al riposo, e mangiano quel po’ che resta loro nello zaino. Si riparte presto. Il mio braccio è peggiorato, non ha più forza e nell’appoggiarmi per alzarmi, ricado.

Ma lo zaino non lo abbandonerò mai! Guardo giù e vedo Aosta ancora lontanissima. Erano circa le 11.30 e dovevamo essere in caserma per le 13; non ce l’avremmo fatta. Infatti i km. sono molti come pure il dislivello, siano circa a q. 1800. In questo ultimo tratto cominciamo a scoppiare. Si cade spesso per irrigidimento delle gambe. Al poligono di Clen-Neuf ci fermiamo. Sì beve molta acqua e ci si bagna la testa e i vestiti perché da quasi un’ora il sole batteva forte a dispetto delle condizioni del giorno prima. Qualcuno non ha più lo zaino, qualche altro ne ha due; qualcuno non ha più il fucile, qualche altro ne ha tre. Si riparte per l’ultimo tratto e sono già le 13. Ormai devo resistere fino in fondo. Mi fanno male i piedi ma sono fortunato perché c’è chi ha vesciche e tendiniti paurose. La schiena non la sento più e le gambe sono rigide.

La compagnia è tutta fuori copertura. Ogni tanto sorpasso qualcuno che senza zaino e con la testa bassa, zoppicando scende lentamente. Vedo Fox, il dottore, che pur essendo uno dei più forti, si ferma appoggiandosi senza zaino ad un muro. Libori, quello che fa alpinismo, Spanò e tanti altri dei quali non ricordo i nomi. Io ormai ce l’avevo fatta. Per la soddisfazione stavo quasi meglio.

In caserma alle 14.20 appoggio lo zaino nel piazzale e vado a mangiare. Mi verrebbe da piangere veramente, se non mi controllo, e non so perchè. Mangio qualcosa con le mani e zoppicando vado in camera a distendermi. E stato un pomeriggio nero. Stavo malissimo. Lo zaino andò a prendermelo Foschia e il fucile me lo portò Pelaia che intanto si era riposato grazie a qualche giorno di “riposo branda”. Ero perfino di servizio la sera alle 18, ma mi feci sostituire.

Non potei godermi la soddisfazione di parlare un po’ con qualcuno della vicenda. Solo la notte mi rimise un po’ in sesto a parte il braccio che rimaneva indebolito. Il giorno dopo prove del giuramento su al Castello (a piedi naturalmente). Non mi schierai per il braccio, perché non riuscivo a sostenere un fucile e anche oggi (16 settembre) per lo stesso braccio ho delle noie (nel pomeriggio andrò dall’ortopedico per una visita).

Così ho speso tanto tempo, pagine e inchiostro per raccontarti una tipica marcia che fa parte del corso AUC del 100°. Sarà peggio quando faremo le pattuglie e ancora di più al campo in novembre nel mezzo della neve. I nostri vecchi sono tornati da poco e fra una settimana se ne vanno, ma ci hanno fatto capire che il più “duro” deve ancora venire per noi. Non mi resta che stringere i denti in questi ultimi 98 giorni! per la stelletta. Poi ci sarà il resto in una posizione diversa ma da meritare. Guardando la carta topografica rilevammo il tragitto. Circa 20 km. di montagna. "

 

Brano tratto da: “Sante era già arrivato. Il diario di Sante Silvestrini”